lunedì 26 settembre 2011

Tassa sull'idiozia

Non riesco a capire tutto questo tam tam mediatico dell'entrata in vigore del ddl anti intercettazioni.

Sopratutto per la parte riguardante i siti web di informazione, parte questa della norma che sto aspettando con trepida attesa. Lavoro in un call center, a 600 euro al mese, un affitto sulle spalle e tanto tempo libero passato a far crescere il locale comitato Arcigay. Sulla base di questo, e di una necessità urgente di dare una svolta positiva alla vita mia e del mio compagno, sto iniziando a gettare i fondamenti per un guadagno rapido ed efficace, ma per farlo ho necessità che questo ddl venga rapidamente approvato.

Credo che nessuno abbia veramente capito quali novità introdurrebbe, sicuramente coloro che lo propongono meno di tutti. Infatti, così come può essere sicuramente strumento di controllo e bavaglio per quanto riguarda ogni tipo di informazione alternativa, allo stesso modo può essere utilizzato per richiedere rettifica di tutto il resto delle informazioni che fluttuano nel web.

Ho già scritto e predisposto infatti una ventina di mail, dove richiedo ai siti più orientati verso la maggioranza di rettificare ogni attributo al premier in "eminente puttaniere" o "nano infame". Oltre a ciò, richiederò precisazioni su tutti deputati o senatori indagati per mafia, corruzione, falso in bilancio etc per ogni articolo o citazione su di loro. Non oso immaginare quante mail potrei inviare dopo ogni esternazione online di Minzolini, ad esempio. Infine, siti come pontifex o simili, baluardi di un'omofobia cieca e velenosa, saranno subissati di mail e fax circa immediate correzioni di tutte le volte che incolpano due uomini o donne che si baciano di uragani o terremoti dall'altra parte del mondo (la famosa teoria del caos cattolico: io bacio il mio compagno in Italia e dio lancia uno tsunami in Giappone - viene da chiedersi se questo dio sia parecchio miope o se semplicemente abbia una pessima mira).

E qui ovviamente arriva la parte - per me - più gustosa ed economicamente interessante. Non ho alcun dubbio che nessuno di questi siti/testate/blog vorrà fare un passo indietro rispetto alla loro linea editoriale, anzi invocheranno la libertà di stampa, di parola, di pensiero, e tutto il frasario contenuto negli inni di partito dal '94 ad oggi. Ed ogni volta che non correggeranno, che non pubblicheranno smentite o rettifiche di rito, 12.000 euro verranno depennati dal loro bilancio (fossi un fine umorista chiamerei questo ddl la tassa sull'idiozia). In breve sono sicuro che verrei contattato da un'alquanto adirata quanto spennata redazione editoriale che mi chiederebbe, con ruvido garbo, quale cifra potrei accettare per lasciar loro fare il lavoro per cui vengono pagati. E visto che viviamo in uno stato di diritto, liberale, una repubblica fondata sul lavoro, non avrei problemi a fermarmi: giusto dopo aver raggiunto un'adeguata somma per alzare i tacchi ed andarmene da quest'Italia nella quale anche "togliere la libertà è una forma di libertà", come ricordava Paolo Rossi.

giovedì 30 giugno 2011

Polemica su recensione Amore e non amore

(Al fine di evitare non solo polemiche ma querele e problemi, riferiamo innanzitutto - e non alla fine come sarebbe più logico – che tutto ciò che viene scritto in questo post è frutto della fantasia malata dell'autore, e le persone citate mai hanno dichiarato assurdità simili. Almeno, non in relazione al mio racconto. Ah, no, la recensione comunque è vera, anche se meravigliosamente ironica.)


Riceviamo e pubblichiamo una velenosa recensione che in questo periodo sta girando sul web, e che ha scatenato giustamente una levata di scudi tra i difensori dell'autore. Vanno però segnalate le voci che
hanno approfittato di questo polverone mediatico per confermare le loro posizioni. Giovanardi, infatti, dichiara che "Come risulta evidente, da questa recensione è evidente che l'amore omosessuale risulta artificioso e innaturale", mentre Buttiglione rincara "La sponda narcisistica che Giusta racchiude evidenzia l'incapacità degli omosessuali di raggiungere la profondità dell'amore naturale tra donna e uomo che si compie nella procreazione così come è stato stabilito nel disegno di Dio". Arriva anche un commento del sindaco di Treviso, che afferma "Alla fine è chiaro che questi culattoni manco sanno scrivere". Non schierate le associazioni LGBT, in quanto non riescono a prendere posizione a causa del personaggio introdotto nella novella, che è centralinista - e quindi precario - e gay. C'è divisione, riferiscono i rumors che arrivano dalla plenaria del movimento, relativamente a quale deve essere considerata l'identità principale,
se quella del precario o quella omosessuale.
Ecco qui riportata la pietra dello scandalo:

Diario dell’Eros di Marco Alessandro Giusta
Recensione di Davide Crestanello

Le paginette diaristiche che Giusta raccoglie per mettere insieme questo raccontino selezionato per l’antologia Amore e non Amore non si potrebbero definire meglio che con una sola parola: troppo. Sono troppo poche per definirsi davvero un racconto diaristico che tenga incollato il lettore alla vita interessante del protagonista raccontata in prima persona, e sono troppo numerose perché l’effetto non sia l’inutile dispersione del contenuto in una brodaglia allungata. Sono troppo ricercate e sono troppo basse nello stesso momento, donando all’intero racconto una inverosimilità non adatta ad un diario, come esso si presenta. Non si può certo negare il talento magistrale di Giusta nell’abbandonarsi alla liricità commovente ad alcuni tratti, anche se paiono davvero troppo ricercati ed eruditi: non credo di aver mai aggiornato il mio personale diario di citazioni colte, e non credo molti lo facciano. Come diceva Callimaco “Del fiume assiro grande è la corrente, ma molte sono le impurità e molto fango trascina nell'acqua”: ovvero inutile inutile inutile ridondanza. E quando la capacità artistica di Giusta sembra davvero raggiungere la poesia, non è che pennellata di un meraviglioso colore data a casaccio, i punti lasciati in bianco senza tinta infastidiscono l’occhio di chi guarda uno scarabocchio promettente ma che troppo ingenuamente già si crede un capolavoro. I momenti di bassezza narrativa sicuramente aggiunti per dare veridicità alla storia nonché forte realismo diaristico intontiscono il lettore, e la troppa brevitas del raccontino, non lascia spazio all’afferrare se sia un brutta storia scritta bene o se siano paginette strappate  così come erano dal diario di centralinista gay con troppe pretese artistiche. Il contenuto si poteva adattare bene all’Antologia, e forse per questo è stato scelto, perché seppur si tratti di un amore, altri non è che l’assenza di esso, e il protagonista non fa che crogiolarsi in questa assenza infinita, nel continuo lamento sofferente di un, ripetiamolo, centralinista gay. Qualcuno spari a chi disse che basta cogliere il patimento del mondo per essere un artista, qualcuno accoltelli chi ritiene che basta mettere insieme qualche bella parola una dietro l’altra come i più talentuosi logografi e sofisti per essere un genio letterario, qualcuno impicchi chi sostiene che artista si diventi e non si nasca. Era davvero questa una storia degna di essere raccontata? Quando il naturalismo arriva in Giappone alla fine dell’800, la mala interpretazione dei testi stranieri fa credere ai poveri giappini che basti scrivere la realtà così com’è, la verità soggettiva della vita degli autori, di quello che succedeva loro, per creare un opera naturalista. Era questo il Watakushi Shōsetsu, e Mario Praz ne disse a riguardo: “Si faceva a gara a chi metteva i panni più sporchi in pubblico”. Non si può certo fare un paragone con Proust, Joyce, Mishima, che amplificano la vita del mondo e della generazione, arrivando ad universalizzare le emozioni. Insomma, Giusta non fa altro che sbandierare un amore non corrisposto, chiamandolo Non Amore per universalizzarlo, ma non è altro che un’ennesima copia di quella letteratura gay che non riuscirà mai a diventare un classico perché riconferma uno stereotipo davvero troppo esagerato del mondo omosessuale. La letteratura gay sembra dividersi tra le strazianti tragedie del povero ragazzo gay non corrisposto e tra gli amore gai e letizi tra due tacchini scolpiti nel marmo belli come il sole che esistono più per troppa invidiosa fantasia dello scrittore che per realismo e attinenza alla credibilità. L’amore di Giusta per Eros potrebbe essere paragonato mai ai sentimenti di Elizabeth Bennet, o a quelli di Edoardo, Carlotta, Ottilia e il Capitano? È forse Eros una Micòl Finzi-Contini moderna e omosessuale? Lasciamo riprendere le opere classiche per modernizzarle a chi è in grado di creare opere letterarie e/o cinematografiche come Il diario di Bridget Jones o Closer. Lasciamo comporre arte a chi davvero è un artista, e lasciamo che il resto del mondo compia il proprio compitino sociale, senza il bisogno di evadere dalla realtà del nulla della vita borghese di oggi fotografando bicchieri di birra in bianco e nero o spruzzando acquerelli da quattro soldi su un lenzuolo. Riconosciamo a Giusta la sua innata capacità dialettica che gli fa creare belle frasi (da rileggere un paio di volte per la troppa ridondanza), dote che di sicuro gli potrebbe aprire una prolifica strada in politica, ma gli consigliamo di continuare a dedicarsi al diario esclusivamente per una catarsi personale, altrimenti le sue pagine di oggi finiranno, come disse qualcuno, per incartare il pesce di domani.

Scoppia la polemica, a stretto giro risponde l'autore ai giornalisti che lo raggiungono durante una conferenza: "C'è qualcuno che sostiene di non aver la capacità d'inserir brani ricercati nei propri diari. A costoro consiglierei di evitar d'esporre panni in pubblico, ché il silenzio è spesso più rumoroso della sbandierata ridondante mediocrità".

Restiamo in attesa di ulteriori sviluppi.

domenica 26 giugno 2011

Il cambiamento è nell'aria


La notizia che arriva oggi da New York, diventato il sesto Stato americano in cui una coppia omosessuale ha il diritto di sposarsi per merito dell’approvazione del Marriage Equality Act, sostenuto anche da Obama, e il patrocinio che il Comune di Milano ha concesso alla manifestazione sono un importante passo in avanti.
Il cambiamento che abbiamo iniziato a costruire, a partire dalla rivolta di Stonewall nel 1969, sta entrando in una nuova fase, e l’accelerazione è tangibile. Società civile, testimonial come Lady Gaga all’Europride, imprese e politica  – a livello internazionale  – stanno diventando attori di una nuova fase sensibile a temi di interesse comune e vicina ai diritti delle minoranze, visti non più solo come richieste di pochi ma come opportunità per il miglioramento della vita di tutte e tutti. Pare il traguardo sempre più vicino, sopratutto per chi ha il coraggio di fare un passo avanti e diventare parte del processo di trasformazione.
Il Comitato provinciale Arcigay di Torino “Ottavio Mai”, assieme alle altre associazionie LGBT cittadine e nazionali, è da sempre pronto ad accogliere chiunque voglia fare questa scelta e si impegna  a dare voce alle persone che vorranno portare la propria esperienza, il proprio entusiasmo, la rabbia e la speranza di chi ogni giorno si ritrova diviso tra il paese in cui vive e il mondo che va avanti.
Vogliamo sognare assieme un paese migliore per tutti i cittadini e cittadine, qualunque sia il loro orientamento sessuale, identità di genere, età, etnia e religione. Vogliamo costruirlo ora, perchè sia il nostro regalo non più soltanto alle generazioni che verranno, ma anche a noi stessi e alle persone che amiamo.

sabato 4 giugno 2011

Sulla Libertà



F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov

La mia azione si svolge in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé si bruciavano gli eretici.
Oh, certo, non è cosí che Egli scenderà, secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in tutta la gloria celeste, improvviso “come folgore che splende dall’Oriente all’Occidente”. No, Egli volle almeno per un istante visitare i Suoi figli proprio là dove avevano cominciato a crepitar i roghi degli eretici. Nell’immensa Sua misericordia, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quel medesimo aspetto umano col quale era passato per tre anni in mezzo agli uomini quindici secoli addietro. Egli scende verso le “vie roventi” della città meridionale, in cui appunto la vigilia soltanto, in un “grandioso autodafé”, alla presenza del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle piú leggiadre dame di corte, davanti a tutto il popolo di Siviglia, il cardinale grande inquisitore aveva fatto bruciare in una volta, ad majorem Dei gloriam, quasi un centinaio di eretici. Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco – cosa strana – tutti Lo riconoscono. Spiegare perché Lo riconoscano, potrebbe esser questo uno dei piú bei passi del poema. Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione. Il sole dell’amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare. Ecco che un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: “Signore, risanami, e io Ti vedrò”, ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede. Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa. I bambini gettano fiori dinanzi a Lui, cantano e Lo acclamano: “Osanna!”. “E’ Lui, è Lui”, ripetono tutti, “dev’essere Lui, non può esser che Lui”. Egli si ferma sul sacrato della cattedrale di Siviglia nel preciso momento in cui portano nel tempio, fra i pianti, una candida bara infantile aperta: c’è dentro una bambina di sette anni, unica figlia di un insigne cittadino. La bimba morta è tutta coperta di fiori. “Egli risusciterà la tua bambina”, gridano dalla folla alla madre piangente. Il prete della cattedrale uscito incontro alla bara guarda perplesso e aggrotta le sopracciglia. Ma ecco risonare a un tratto il grido della madre della bambina morta. Essa si getta ai Suoi piedi: “Se sei Tu, risuscita la mia creatura!”, esclama, tendendo le braccia verso di Lui. Il corteo si ferma, la bara è deposta sul sacrato ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà e le Sue labbra pronunziano piano ancora una volta: “Talitha kum”, “e la fanciulla si levò”. La bambina si solleva nella bara, si siede e guarda intorno sorridendo con gli occhietti sgranati, pieni di stupore. Ha nelle mani il mazzo di rose bianche col quale era distesa nella bara. Il popolo si agita, grida, singhiozza; ed ecco in questo stesso momento passare accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. È un vecchio quasi novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce. Oh, egli non ha piú la sontuosa veste cardinalizia di cui faceva pompa ieri davanti al popolo, mentre si bruciavano i nemici della fede di Roma: no, egli non indossa in questo momento che il suo vecchio e rozzo saio monastico. Lo seguono a una certa distanza i suoi tetri aiutanti, i servi e la “sacra” guardia. Si ferma dinanzi alla folla e osserva da lontano. Ha visto tutto, ha visto deporre la bara ai piedi di Lui, ha visto la bambina risuscitare, e il suo viso si è abbuiato. Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di afferrarlo. E tanta è la sua forza e a tal punto il popolo è docile, sottomesso e pavidamente ubbidiente, che la folla subito si apre davanti alle guardie e queste, in mezzo al silenzio di tomba che si è fatto di colpo, mettono le mani su Lui e Lo conducono via. Per un istante tutta la folla, come un solo uomo, si curva fino a terra davanti al vecchio inquisitore; questi benedice il popolo in silenzio e passa oltre. Le guardie conducono il Prigioniero sotto le volte di un angusto e cupo carcere nel vecchio edificio del Santo Uffizio e ve Lo rinchiudono. Passa il giorno, sopravviene la scura, calda, “afosa” notte di Siviglia. L’aria “odora di lauri e di limoni”. In mezzo alla tenebra profonda si apre a un tratto la ferrea porta del carcere, e il grande inquisitore in persona con una fiaccola in mano lentamente si avvicina alla prigione. È solo, la porta si richiude subito alle sue spalle. Egli si ferma sulla soglia e considera a lungo, per uno o due minuti, il volto di Lui. Infine si accosta in silenzio, posa la fiaccola sulla tavola e Gli dice:


– “Sei Tu, sei Tu?” – Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: – “Non rispondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sí, forse Tu lo sai”, – aggiunse, profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero.


– Io non comprendo bene Ivàn, che voglia dir questo – sorrise Aljòsa, che aveva sempre ascoltato in silenzio; – è semplicemente una fantasia delirante, o un errore del vecchio, un assurdo qui pro quo?


– Ammetti pure quest’ultima ipotesi, – scoppiò a ridere Ivàn, – se il realismo contemporaneo ti ha già tanto guastato che tu non possa tollerare nulla di fantastico; vuoi che sia un qui pro quo? E sia pure! È vero, – e tornò a ridere, – il vecchio ha novant’anni e da un pezzo la sua idea poteva averlo fatto impazzire. Egli poteva essere stato colpito dall’aspetto esteriore del Prigioniero. Poteva infine essere un semplice delirio, la visione di un vecchio novantenne sulla soglia della morte, sovreccitato per giunta dall’autodafé dei cento eretici bruciati la vigilia. Ma qui pro quo o fantasia troppo sfrenata, non è lo stesso per noi? L’importante qui è solo che il vecchio deve infine manifestare il proprio pensiero e lo manifesta e dice ad alta voce ciò che per novant’anni ha taciuto.


– E il Prigioniero rimane zitto? Lo guarda e non dice nemmeno una parola?


– Ma è cosí che deve essere, in ogni caso, – rise nuovamente Ivàn. – Il vecchio stesso Gli osserva che Egli non ha il diritto di aggiunger nulla a quanto già fu detto. C’è appunto qui, se vuoi, il tratto piú fondamentale del cattolicesimo romano, come a dire. “Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo”. In questo senso non solo parlano, ma anche scrivono i cattolici, i gesuiti almeno. L’ho letto io stesso nelle opere dei loro teologi. “Hai Tu il diritto di rivelarci anche un solo segreto del mondo da cui sei venuto?”. – Gli domanda il mio vecchio e risponde egli stesso per Lui: – “No, Tu non l’hai, se non vuoi aggiungere qualcosa a quello che già fu detto e togliere agli uomini quella libertà che tanto difendesti quando eri sulla terra. Tutto ciò che di nuovo Tu ci rivelassi attenterebbe alla libertà della fede umana, giacché apparirebbe come un miracolo, mentre la libertà della fede già allora, millecinquecent’anni or sono, Ti era piú cara di tutto. Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. – Sí, questa faccenda ci è costata cara, – continua, guardandolo severo, – ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono piú che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?”.


– Io torno a non comprendere, – interruppe Aljòsa, – egli fa dell’ironia, scherza?


– Niente affatto. Egli fa un merito a sé ed ai suoi precisamente di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini. “Ora infatti per la prima volta (egli parla, naturalmente, dell’inquisizione) è diventato possibile pensare alla felicità umana. L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici? Tu eri stato avvertito, – Gli dice, – avvertimenti e consigli non Ti erano mancati, ma Tu non ascoltasti gli avvertimenti. Tu ricusasti l’unica via per la quale si potevano render felici gli uomini, ma per fortuna, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani. Tu ci hai promesso, Tu ci hai con la Tua parola confermato, Tu ci hai dato il diritto di legare e di slegare, e certo non puoi ora nemmeno pensare a ritoglierci questo diritto. Perché dunque sei venuto a disturbarci?”.


– Ma che cosa significa: “Non Ti sono mancati avvertimenti e consigli?” – domandò Aljòsa.


– Ma qui appunto sta l’essenza di ciò che il vecchio deve esprimere. “Lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito. Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti avesse “tentato”. Non è cosí? Ma si poteva mai dire qualcosa di piú vero di quanto egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette “tentazioni”? Tuttavia, se mai ci fu sulla terra un vero e clamoroso miracolo, fu in quel giorno, nel giorno di quelle tre tentazioni. Precisamente nella formulazione di quelle tre domande era racchiuso il miracolo. Se si potesse, soltanto a mo’ di esempio e di ipotesi, immaginare che quelle tre domande dello spirito terribile fossero scomparse dai libri senza lasciare traccia e che occorresse ricostruirle, pensarle e formularle di nuovo, per rimetterle nei libri, e se per questo si riunissero tutti i sapienti della terra – governanti, prelati, dotti, filosofi, poeti, – e si assegnasse loro questo compito: immaginate, formulate tre domande tali da corrispondere all’importanza dell’evento non solo, ma da esprimere per giunta in tre parole, in tre proposizioni umane, tutta la futura storia del mondo e dell’umanità, – ebbene, credi Tu che tutta la sapienza della terra, insieme raccolta, potrebbe concepire qualcosa di simile per forza e profondità a quelle tre domande che Ti furono allora rivolte nel deserto dallo spirito intelligente e possente? Già solo da quelle domande e dal prodigio della loro formulazione si può capire che si ha da fare non con lo spirito umano transitorio, ma con quello eterno ed assoluto. In quelle tre domande infatti è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. Questo non poteva ancora, a quel tempo, essere cosí chiaro, poiché l’avvenire era ignoto, ma adesso, passati quindici secoli, noi vediamo che in quelle tre domande tutto era stato a tal segno divinato e predetto e che tutto si è a tal segno avverato, che non è piú possibile aggiungervi o toglierne alcunché.


Decidi Tu stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la prima domanda: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana piú intollerabile della libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? Tu obiettasti che l’uomo non vive di solo pane, ma sai Tu che nel nome di questo stesso pane terreno, insorgerà contro di Te lo spirito della terra e lotterà con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, esclamando: “Chi è comparabile, a questa bestia? Essa ci ha dato il fuoco del cielo!”. Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtú!”, ecco quello che scriveranno sulla bandiera che si leverà contro di Te e che abbatterà il Tuo tempio. Al posto del Tuo tempio sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova spaventosa torre di Babele, e, quand’anche essa restasse, come la prima, incompiuta, Tu avresti però potuto evitare questa nuova torre e abbreviare di mille anni le sofferenze degli uomini, giacché essi verranno a noi, dopo essersi arrovellati per mille anni intorno alla loro torre! Essi torneranno allora a cercarci sotto terra, nelle catacombe, dove ci nasconderemo (perché saremo di nuovi perseguitati e torturati), ci troveranno e ci grideranno: “Nutriteci, perché quelli che ci avevano promesso il fuoco del cielo non ce l’han dato”. E allora saremo noi a ultimare la loro torre, giacché la ultimerà chi li sfamerà e noi soli li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitú ma sfamateci!”. Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu promettevi loro il pane celeste, ma, lo ripeto ancora, può esso, agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa ed eternamente abietta, paragonarsi a quello terreno? E se migliaia e diecine di migliaia di esseri Ti seguiranno in nome del pane celeste, che sarà dei milioni e dei miliardi di esseri che non avranno la forza di posporre il pane terreno a quello celeste? O forse Ti sono care soltanto le diecine di migliaia di uomini grandi e forti, mentre i restanti milioni, numerosi come la sabbia del mare, di esseri deboli, che però Ti amano, non devono servire che da materiale per i grandi e per i forti? No, a noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo piú avvicinare a noi. E in quest’inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata piú in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero piú assidua e piú tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il piú grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal principio dei secoli. È per ottenere quest’adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dèi e si sono sfidati l’un l’altro: “Abbandonate i vostri dèi e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dèi!”. E cosí sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dèi saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadrànno allora in ginocchio davanti agli idoli. Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda poi quel che hai fatto in seguito. E sempre in nome della libertà! Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero piú angoscioso che quello di trovare al piú presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura. Ma dispone della libertà degli uomini solo chi ne acqueta la coscienza. Col pane Ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è piú indiscutibile del pane; ma, se qualcun altro accanto a Te si impadronirà nello stesso tempo della sua coscienza, oh, allora egli butterà via anche il Tuo pane e seguirà colui che avrà lusingato la sua coscienza. In questo Tu avevi ragione. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto, ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu l’hai ancora accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo piú cara della libera scelta fra il bene ed il male? Nulla è per l’uomo piú seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è piú tormentoso. Ed ecco che, in luogo di saldi principi, per acquetare la coscienza umana una volta per sempre, Tu hai scelto tutto quello che c’è di piú inconsueto, enigmatico e impreciso, hai scelto tutto quello che superava le forze degli uomini, e hai perciò agito come se Tu non li amassi per nulla, e chi mai ha fatto questo? Colui che era venuto a dare per essi la Sua vita! Invece d’impadronirti della libertà umana, Tu l’hai moltiplicata e hai per sempre gravato col peso dei suoi tormenti la vita morale dell’uomo. Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine; ma non avevi Tu pensato che, se lo si fosse oppresso con un cosí terribile fardello come la libertà di scelta, egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la Tua verità? Essi esclameranno, alla fine, che la verità non è in Te, perché era impossibile abbandonarli fra ansie ed angosce maggiori di come Tu facesti, lasciando loro tante inquietudini e tanti insolubili problemi. In tal modo preparasti Tu stesso la rovina del Tuo regno, e non darne piú la colpa a nessuno. Ma è questo intanto che Ti offriva? Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. Lo spirito sapiente e terribile. Ti aveva posto sul culmine del tempio e Ti aveva detto: “Se vuoi sapere se Tu sei Figlio di Dio, gettati in basso, poiché di Lui è detto che gli angeli Lo sosterranno e Lo porteranno, ed Egli non cadrà e non si farà alcun male, e saprai allora se Tu sei il Figlio di Dio e proverai allora quale sia la Tua fede nel Padre Tuo”; ma Tu, udito ciò, respingesti l’offerta, non Ti lasciasti convincere e non Ti gettasti giú. Oh, certo, Tu agisti allora con una magnifica fierezza, come Iddio, ma gli uomini, questa debole razza di ribelli, sono essi forse dèi? Oh, Tu comprendesti allora che, facendo un solo passo, un solo movimento per gettarti giú, avresti senz’altro tentato il Signore e perduto ogni fede in Lui, e Ti saresti sfracellato sulla terra che eri venuto a salvare, e si sarebbe rallegrato lo spirito sagace che Ti aveva tentato. Ma, ripeto, ce ne sono forse molti come Te? E in verità potevi Tu ammettere, non fosse che per un momento, che anche gli uomini avessero la forza di resistere a una simile tentazione? È forse fatta la natura umana per respingere il miracolo e, in cosí terribili momenti della vita, di fronte ai piú terribili, fondamentali e angosciosi problemi dell’anima, rimettersi unicamente alla libera decisione del cuore? Oh, Tu sapevi che la Tua azione si sarebbe tramandata nei libri, avrebbe raggiunto la profondità dei tempi e gli ultimi confini della terra, e sperasti che, seguendo Te, anche l’uomo si sarebbe accontentato di Dio, senza bisogno di miracoli. Ma Tu non sapevi che, non appena l’uomo avesse ripudiato il miracolo, avrebbe subito ripudiato anche Dio, perché l’uomo cerca non tanto Dio quanto i miracoli. E siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, cosí si creerà dei nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo. Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. Ma anche qui Tu giudicavi troppo altamente degli uomini, giacché, per quanto creati ribelli, essi sono certo degli schiavi. Vedi e giudica, son passati quindici secoli, guardali: chi hai Tu innalzato fino a Te? Ti giuro, l’uomo è stato creato piú debole e piú vile che Tu non credessi! Può egli forse compiere quel che puoi compiere Tu? Stimandolo tanto, Tu agisti come se avessi cessato di averne pietà, perché troppo pretendesti da lui, e chi ha fatto questo? Colui che lo amava piú di se stesso! Stimandolo meno, avresti anche meno preteso da lui, e questo sarebbe stato piú vicino all’amore, perché piú leggera sarebbe stata la sua soma. Egli è debole e vile. Che importa che egli adesso si sollevi dappertutto contro la nostra autorità e si inorgoglisca della sua rivolta? È l’orgoglio del bambino e dello scolaretto. Sono i piccoli bimbi che si sono ribellati in classe e hanno cacciato il maestro. Ma anche l’esaltazione dei ragazzetti avrà fine e costerà loro cara. Essi abbatteranno i templi e inonderanno di sangue la terra. Ma si avvedranno infine, gli sciocchi fanciulli, di essere bensí dei ribelli, ma dei ribelli deboli e incapaci di sopportare la propria rivolta. Versando le loro stupide lacrime, riconosceranno infine che chi li creò ribelli se ne voleva senza dubbio burlare. Essi lo diranno nella disperazione, e le loro parole saranno una bestemmia che li renderà anche piú infelici, perché la natura umana non sopporta la bestemmia e alla fin fine se ne vendica sempre da sé. Inquietudine dunque, tumulto e infelicità: ecco l’odierna sorte degli uomini, dopo che Tu tanto patisti per la loro libertà! Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere cosí terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti? Ma se è cosí, c’è qui un mistero e noi non possiamo comprenderlo. E se c’è un mistero, anche noi avevamo il diritto di predicarlo e di insegnare agli uomini che non è la libera decisione dei loro cuori quello che importa, né l’amore, ma un mistero, a cui essi debbono ciecamente inchinarsi, anche contro la loro coscienza. E cosí abbiamo fatto. Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono cosí terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti. Avevamo noi ragione d’insegnare e di agire cosí? Parla! Forse che non amavamo l’umanità, riconoscendone cosí umilmente l’impotenza, alleggerendo con amore il suo fardello e concedendo alla sua debole natura magari anche di peccare, ma però col nostro consenso? Perché mi guardi in silenzio coi tuoi miti occhi penetranti? Va’ in collera, io non voglio il Tuo amore, perché io stesso non Ti amo. E che cosa dovrei nasconderti? Non so forse con chi parlo? Tutto ciò che ho da dirti, già Ti è noto, lo leggo nei Tuoi occhi. E dovrei io nasconderti il nostro segreto? Forse Tu vuoi proprio udirlo dalle mie labbra, ascolta dunque: noi non siamo con Te, ma conlui, ecco il nostro segreto! Da lungo tempo non siamo piú con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono esattamente otto secoli che accettammo da lui ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno, quell’ultimo dono ch’egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, sebbene non abbiamo ancora avuto il tempo di compiere interamente l’opera nostra. Ma di chi la colpa? Oh, quest’opera è finora soltanto agli inizi, ma è cominciata! Ancora a lungo si dovrà attenderne il compimento e molto ancora soffrirà la terra, ma noi raggiungeremo la mèta, saremo Cesari, e allora penseremo all’universale felicità degli uomini. Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini. Sempre l’umanità mirò nel suo insieme ad organizzarsi universalmente. Molti furono i grandi popoli con una grande storia, ma quanto piú elevati erano quei popoli, tanto piú erano infelici, perché piú fortemente degli altri sentivano il bisogno dell’unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, i Timùr e i Gengis-Chan, passarono come un turbine sulla terra, cercando di conquistare l’universo, ma anche essi, per quanto inconsapevolmente, espressero quello stesso potente bisogno umano di unione mondiale ed universale. Accettando il mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato il regno universale e dato la pace universale. Chi mai infatti deve dominare gli uomini, se non quelli che dominano la loro coscienza e nelle cui mani è il loro pane? E noi abbiamo preso la spada di Cesare, ma naturalmente, prendendola, ripudiammo Te e andammo dietro a lui. Oh, passeranno ancora secoli di orgia del libero pensiero, di umana scienza e di antropofagia, perché, avendo cominciato a costruire la loro torre di Babele senza di noi, è con l’antropofagia che termineranno. Ma proprio allora la bestia striscerà verso di noi e leccherà i nostri piedi e li spruzzerà con le lacrime di sangue dei suoi occhi. E noi ci assideremo sulla bestia e leveremo in alto una coppa su cui sarà scritto “Mistero!”. Ma allora soltanto, e allora spunterà per gli uomini il regno della pace e della felicità. Tu sei fiero dei Tuoi eletti, ma Tu non hai che eletti, mentre noi daremo la pace a tutti. D’altra parte, c’è anche questo: quanti di quegli eletti, e di quei forti che avrebbero potuto diventarlo, si sono infine stancati di attenderli, e hanno portato e ancora porteranno su altri campi le forze del loro spirito e la fiamma del loro cuore, e finiranno anche per sollevare contro di te la loro libera bandiera! Ma questa bandiera l’innalzasti Tu stesso. Con noi invece tutti saranno felici e piú non si rivolteranno, né si stermineranno fra loro, come facevano dappertutto nella Tua libertà. Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi. Ebbene, avremo ragione, perché ricorderanno a quali orrori di servitú e di turbolenza li conducesse la Tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurranno in tali labirinti e li porranno davanti a tali portenti e misteri insolubili, che di essi gli uni, ribelli e furiosi, si distruggeranno da sé, gli altri, ribelli ma deboli si distruggeranno fra loro, mentre i rimanenti, imbelli e infelici, si trascineranno ai nostri piedi e ci grideranno: “Sí, voi avevate ragione, voi soli possedevate il Suo segreto e noi torniamo a voi, salvateci da noi medesimi”. Ricevendo i pani da noi, certo vedranno chiaramente che prendiamo i loro stessi pani, guadagnati dalle loro stesse braccia, per distribuirli fra essi, senza miracolo alcuno, vedranno che noi non abbiamo mutato in pani le pietre, ma in verità, piú che del pane stesso, saranno lieti di riceverlo dalle nostre mani! Giacché troppo bene ricorderanno che prima, senza di noi, gli stessi pani da essi guadagnati si mutavano nelle loro mani in pietre, mentre, dopo il ritorno a noi, le pietre medesime si sono mutate nelle mani loro in pani. Troppo, troppo apprezzeranno quel che significa sottomettersi una volta per sempre! E finché gli uomini non capiranno questo, saranno infelici. Ma chi piú di tutti, dimmi, ha favorito questa incomprensione? Chi ha diviso il gregge e l’ha disperso per vie sconosciute? Ma il gregge tornerà a raccogliersi, tornerà a sottomettersi, e questa volta per sempre. Allora noi daremo loro la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli, quali essi furono creati. Oh, noi li persuaderemo infine a non inorgoglirsi, ché Tu li innalzasti e in tal modo insegnasti loro a inorgoglirsi: proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bimbi, ma che la felicità infantile è la piú dolce di tutte. Essi diverranno mansueti, guarderanno a noi e a noi si stringeranno, nella paura, come i pulcini alla chioccia. Ci ammireranno e avranno paura di noi, e saranno fieri che noi siamo cosí potenti e cosí intelligenti da aver potuto pacificare un cosí tumultuoso e innumere gregge. Temeranno la nostra collera, i loro spiriti si faranno timidi, i loro occhi lacrimosi, come quelli dei bambini e delle donne, ma altrettanto facilmente passeranno, a un nostro cenno, all’allegrezza, ed al riso, alla gioia luminosa ed alle felici canzoni infantili. Certo li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro vita come un giuoco infantile con canti e cori e danze innocenti. Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo prenderemo su di noi. Cosí faremo, ed essi ci adoreranno come benefattori che si saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio. E per noi non avranno segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli ed amanti, di avere o di non avere figli, – sempre giudicando in base alla loro ubbidienza, – ed essi s’inchineranno con allegrezza e con gioia. Tutti, tutti i piú tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere. E tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo un centinaio di migliaia di condottieri. Giacché noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici. Ci saranno miliardi di pargoli felici e centomila martiri che avranno preso su di sé la maledizione di discernere il bene dal male. Essi morranno in pace, in pace si spegneranno nel nome Tuo e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi conserveremo il segreto e li lusingheremo, per la loro felicità, con una ricompensa celeste ed eterna. Infatti, quand’anche in quell’altro mondo ci fosse qualcosa, non sarebbe certo per esseri simili. Si dice e si profetizza che Tu verrai e vincerai di nuovo, che verrai coi Tuoi eletti, superbi e possenti, ma noi diremo che essi hanno salvato solamente se stessi, mentre noi abbiamo salvato tutti. Si dice che la meretrice seduta sulla bestia, con la coppa del mistero nelle mani, sarà svergognata, che i deboli torneranno a rivoltarsi, strapperanno la sua porpora e denuderanno il suo corpo “impuro”. Ma io allora mi alzerò e Ti additerò i mille milioni di bimbi felici, che non conobbero il peccato. E noi, che ci siamo caricati dei loro peccati, per la felicità loro, noi sorgeremo dinanzi a Te e diremo: “Giudicaci, se puoi e se osi”. Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di cavallette e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico si compirà e sorgerà il regno nostro. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai questo docile gregge gettarsi al primo mio cenno ad attizzare i carboni ardenti del rogo sul quale Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché se qualcuno piú di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi”.


Ivàn, si fermò. Egli si era accalorato e aveva parlato con fervore; quando poi ebbe finito, fece improvvisamente un sorriso.


Aljòsa, che l’aveva sempre ascoltato in silenzio e verso la fine, in preda a straordinaria agitazione, molte volte aveva voluto interrompere il discorso del fratello, ma si era visibilmente trattenuto, si mise d’un tratto a parlare, come scattando:


– Ma... è un assurdo! – esclamò, arrossendo. – Il tuo poema è l’elogio di Gesú e non la condanna... come tu volevi. E chi ti crederà là dove parli della libertà? È cosí, è forse cosí che va intesa? È quello il concetto che ne ha l’ortodossia?... Quella è Roma, e neppure tutta Roma, sbaglio, sono i peggiori fra i cattolici, sono gli inquisitori, i gesuiti!... E un personaggio fantastico come il tuo inquisitore non può esistere affatto. Che cosa sono quei peccati degli uomini che egli ha presi su di sé? Chi sono quei detentori del mistero, che si sono addossata non so quale maledizione per la felicità degli uomini? Quando mai si son visti? Noi conosciamo i gesuiti, se ne parla male, ma sono forse come i tuoi? Non sono affatto cosí, sono tutt’altra cosa... Sono semplicemente l’armata romana per il futuro regno universale terreno, con l’imperatore, il pontefice romano, alla testa... ecco il loro ideale, ma senza nessun mistero e nessuna sublime tristezza... La piú semplice brama di potere, di sordidi beni terreni, di asservimento... una specie di futura servitú della gleba, nella quale essi sarebbero i proprietari fondiari... ecco tutto quello che essi vogliono. Forse non credono nemmeno in Dio. Il tuo inquisitore con le sue sofferenze non è che una fantasia...


– Fermati, fermati! – rise Ivàn, – come ti sei scaldato! Fantasia, tu dici, sia pure! Fantasia, certo. Permetti però: credi tu davvero che tutto questo movimento cattolico degli ultimi secoli non sia in realtà che una brama di potere in vista soltanto di beni volgari? È forse padre Paisio che t’insegna cosí?


– No, no, al contrario, padre Paisio diceva una volta perfino qualcosa del tuo genere... ma era una cosa diversa, certo, tutta diversa, – si riprese Aljòsa.


– Informazione preziosa, però, nonostante il tuo “tutta diversa”. Io ti domando: perché i tuoi gesuiti e inquisitori si sarebbero collegati solo in vista di beni materiali e volgari? Perché non può incontrarsi fra di loro neanche un solo martire, tormentato da una nobile sofferenza e amante dell’umanità? Vedi: supponi che fra tutti questi uomini non desiderosi che di sordidi beni materiali se ne sia trovato anche uno solo come il mio vecchio inquisitore, che abbia mangiato anche lui radici nel deserto e si sia accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto, ma che però abbia in tutta la sua vita amato l’umanità: a un tratto ha aperto gli occhi e ha veduto che non è una gran felicità morale raggiungere la perfezione del volere, per doversi in pari tempo convincere che milioni di altre creature di Dio sono rimaste imperfette, che esse non saranno mai in grado di servirsi della loro libertà, che dai miseri ribelli non usciranno mai dei giganti per condurre a compimento la torre, che non per simili paperotti il grande idealista ha sognato la sua armonia... Dopo aver compreso tutto ciò, egli è tornato indietro e si è unito... alle persone intelligenti. Non poteva questo accadere?


– A chi si è unito, a quali persone intelligenti? – esclamò Aljòsa quasi adirato. – Essi non hanno né tanta intelligenza, né misteri o segreti di sorta... Forse soltanto l’ateismo, ecco tutto il loro segreto. Il tuo inquisitore non crede in Dio, ecco tutto il suo segreto!


– E anche se fosse cosí? Infine tu hai indovinato. È proprio cosí, è ben qui soltanto che sta tutto il segreto, ma non è forse una sofferenza, almeno per un uomo come lui, che ha sacrificato tutta la sua vita nel deserto per una grande impresa e non ha perduto l’amore per l’umanità? Al tramonto dei suoi giorni egli acquista la chiara convinzione che unicamente i consigli del grande e terribile spirito potrebbero instaurare un qualche ordine fra i deboli ribelli, “esseri imperfetti e incompiuti, creati per derisione”. Ed ecco che, di ciò convinto, vede come occorra seguire le indicazioni dello spirito intelligente, del terribile spirito della morte e della distruzione, e, all’uopo, accettare la menzogna e l’inganno, guidare ormai consapevolmente gli uomini alla morte e alla distruzione, e intanto ingannarli per tutto il cammino, affinché non possano vedere dove sono condotti affinché questi miseri ciechi almeno lungo il cammino si stimino felici. E nota: l’inganno è compiuto in nome di Quello nel cui ideale il vecchio ha per tutta la sua vita cosí appassionatamente creduto! Non è questa un’infelicità? E anche se un solo uomo simile si fosse trovato alla testa di tutta quell’armata “avida di potere in vista di soli beni volgari”, non sarebbe sufficiente quest’unico perché si avesse la tragedia? Piú ancora: basterebbe che ci fosse alla testa un solo uomo cosí perché si scoprisse, finalmente, la vera idea direttiva di tutta l’opera di Roma, con tutte le sue armate e i suoi gesuiti, l’idea suprema dell’opera stessa. Te lo dico schietto, io credo fermamente che quest’unico non sia mai mancato fra quelli che erano alla testa del movimento. Chissà, ce ne sono stati anche fra i pontefici romani! Chissà, questo vecchio maledetto, che cosí ostinatamente e cosí a modo suo ama l’umanità, esiste forse anche oggidí sotto l’aspetto di tutta una schiera di vecchi consimili, e non già casualmente, ma perché esiste come un accordo, come una segreta alleanza, già da gran tempo stabilita per custodire il mistero, per salvaguardarlo dagli uomini sventurati ed imbelli, allo scopo di rendere costoro felici. Cosí è senza dubbio, e cosí dev’essere. Io immagino che perfino i massoni abbiano, fra i loro principi, qualcosa di analogo a questo mistero e che i cattolici odino tanto i massoni perché vedono in essi dei concorrenti, che spezzano l’unità dell’idea, mentre unico deve essere il gregge e unico il pastore... Del resto, difendendo il mio pensiero, io ho l’aria di un autore che non sopporta la tua critica. Ma basta di ciò!


– Sei forse massone anche tu! – sfuggí ad Aljòsa. – Tu non credi in Dio, – soggiunse, ma ormai con profonda amarezza. Gli parve inoltre che il fratello lo guardasse con fare canzonatorio. – E come termina il tuo poema? – domandò a un tratto, con lo sguardo a terra, – o è già terminato?


– Io volevo finirlo cosí: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non venir piú... non venire mai piú... mai piú!”. E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si allontana.


– E il vecchio?


– Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.


F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 263 e 282

giovedì 7 aprile 2011

Libertà è partecipazione




E' un momento fondamentale per l'associazione poiché viene fatto il bilancio dei tre anni passati e vengono gettate le basi per il futuro. Insomma, una giornata molto impegnativa! Ma quali motivazioni dovrebbero guidare la partecipazione ai lavori del Congresso? Ho sentito dire molte cose in questi giorni mentre parlavo con le persone: non mi interessano le associazioni, non ci credo più, vi sostengo da fuori, non vedo perchè dovrei partecipare, non conosco quello che fate, non servite a nulla, siete degli sfigati, ho già la mia vita e sono soddisfatto così...


Sarei curiosa di sentire tra dieci anni le stesse persone: ad esempio quando vorranno prendere casa assieme al loro compagno o compagna e si vedranno negare un mutuo perchè “non sposati”, o quando dovranno assistere alle cure del proprio partner e verranno allontanati perchè “non parenti”, o quando vorranno fare o adottare dei figli, o quando verranno rifiutate dal mondo del lavoro o licenziate perchè gay, lesbiche o bisessuali.

Vorrei sentire cosa ne pensano quando ricordiamo i ragazzi e le ragazze che si suicidano perchè i loro compagni li prendono in giro per un'idea di vera o presunta omosessualità, o quando vengono picchiati, derisi, anche uccisi perchè diversi.

Vorrei sapere se ancora tra dieci anni si proverà paura e rigetto a essere omosessuali o bisessuali o transessuali. Il cambiamento che deve esserci dentro di noi dev'essere aiutato dall'ambiente esterno, lo stesso ambiente che, anche ad alti livelli, ci fa sentire inferiori, ci mette all'angolo e ci nega diritti umani basilari per la crescita individuale (vedi patrocini e autorizzazioni per manifestazioni negate, battute offensive in televisione, schieramenti politici chiaramente omofobici sbandierati con orgoglio).

Mi chiedo cosa faranno queste persone nei prossimi dieci anni, quando impatteranno più volte contro una società non inclusiva, ma anzi sempre più discriminatoria nei confronti di gay, lesbiche, bisessuali o transessuali e non solo.


Noi non siamo degli sfigati. Facciamo parte di un'associazione perchè abbiamo un obiettivo ed un ideale: creare una società che valorizzi le diversità in ogni loro espressione, che consenta ad ogni persona di esprimere sé stessa e ponga le basi per la piena e felice realizzazione.

Cosa può fare un'associazione? Diventare un catalizzatore, un accelleratore di movimenti o cambiamenti all'interno della società, che altrimenti non accadranno nei prossimi 50 anni, inutile stare qui a parlarne (guardate che fine hanno fatto i Dico o i Pacs). Io vorrei sposarmi nei prossimi dieci anni, e non mi va di aspettare che il mondo cambi perchè io possa riuscire a vivere una vita serena. Io voglio cambiare il mondo, e voglio farlo nel più breve tempo possibile. So che non posso cambiare il mondo da sola, sarebbe come andare a sbattere contro dei mulini a vento, ma assieme, all'interno di un'associazione riconosciuta a livello nazionale, posso materialmente far cambiare le cose. Per questo assieme a molti altri volontari e volontarie faccio parte di Arcigay:

· perchè opera nel campo sociale e nei settori della cultura, della salute, dell'istruzione;

· perchè non sopporto le ingiustizie e le discriminazioni, e trovo odiosa l'ignoranza usata come bandiera;

· perchè sento la mancanza di tutela da parte della legge e delle istituzioni, e perchè mi sento discriminata in ogni momento della mia vita perchè non ho le stesse possibilità di tutte le altre persone (ad esempio avere la scelta di sposarmi, di adottare figli come coppia o singolo, o anche solo avere la serenità di camminare mano nella mano con la mia ragazza in ogni quartiere della città...)

Per questo parteciperò al congresso di Arcigay: perchè credo che l'associazione sia uno strumento e come tale vada utilizzato per rispondere alle esigenze di coloro che ne fanno parte, perchè ho uno spazio dove dar importanza a quel che sono e a quel che penso, perchè mi permette di contribuire in maniera attiva allo sviluppo della comunità di cui faccio parte e nel frattempo posso crescere come persona, e perchè tra dieci anni, o tra cinquanta, quando guarderò indietro nel mio passato, saprò di aver fatto qualcosa di importante per me e per tutte e tutti gli altri.

Saprò di aver contribuito a costruire qualcosa che ha dato un significato alla mia vita.

Darianna Tedesco
Candidata Vicepresidente
Marco Alessandro Giusta
Candidato Presidente


Congresso Arcigay Torino:
Domenica 10 marzo 2011
Ore 14.30-15 al TYC - Via Pallavicino 35

mercoledì 23 marzo 2011

Yes We Marco


Care e cari,
candidarsi per un incarico importante non è mai una scelta semplice. Molti sono i dubbi e le ansie generate: sarò in grado di fare ciò che mi sono prefissato? Sarò la persona giusta per rispondere alle esigenze delle persone che mi voteranno? Riuscirò a costruire qualcosa di positivo, visto e considerato che l'associazione per la quale mi candido esce da un trend esplosivo di crescita esponenziale?

Queste sono i miei dubbi. A questo aggiungiamo il fatto che la situazione nella quale ci muoviamo non è delle più semplici. Vedo i traguardi che fino a ieri sembravano vicini allontanarsi vertiginosamente, vedo la grande stagione dei diritti che ha avuto il suo apice nel giugno del 2007 con il Pride romano partecipato da circa un milione di persone (in risposta al family day) e le discussioni di Pacs, Dico, Cus etc tramontante e sciolte come neve al sole, quando ormai sembravano così vicine da poterle quasi sfiorare con la punta delle dita. Vedo un ritorno ad un particolarsimo diffuso, ad un disinteresse generale dettato non tanto dalla mancanza di buona volontà, ma di stanchezza e di un senso di impotenza che attraversa la nostra comunità. Vedo anche molta confusione, molti dubbi, una serie estenuante di scissioni, distinguo, veleni, non partecipazioni che frammentano e disgregano le stesse associazioni che ormai sono lasciate in balia a sé stesse nel portare avanti le istanze non solo dei propri soci e socie, ma nel rappresentare una necessità collettiva. Vedo molte persone che scelgono di partire, e non posso che augurare loro di trovare altrove ciò che qui ormai sembra una chimera: una buona istruzione, un buon lavoro, un riconoscimento di dignità e rispetto non solo per i singoli ma anche per le coppie, e tutti i diritti – e grazie al cielo i doveri – che ne derivano. Vedo una società che lotta per restare ancorata a valori di matrice religiosa, che deve cedere il passo ad una multiculturalità che sembra sopraffarla perchè non riesce a costruire valori diffusi di laicità, uguaglianza, condivisione. Insomma, un panorama molto tragico e quasi annichilente, non fosse per le piccole scoperte quotidiane che si interpongono a questa sottile nebbia.

Come fiori che spuntano nella neve vedo una voglia di riunirsi, di parlare, di scendere in piazza su temi condivisi (i Pride, la manifestazione delle donne e degli studenti, ad esempio). Vedo una generazione di giovani crescere attraverso il gruppo giovani con la voglia di fare, di lottare, di essere utili agli altri. Vedo persone meno giovani che arrivano in associazione grazie alle campagne informative, alle attività culturali, ai servizi di ascolto e di incontro, e che non chiedono altro che di essere valorizzate, di poter essere “ancora utili”. Vedo la voglia di spegnere i canali di informazione abituali e costuire nuovi modi di “essere formazione”, di portare la propria esperienza e le proprie conoscenze e di metterle al servizio degli altri. Vedo una volontà di veder riconosciuta la propria specificità di genere o orientamento, soprattutto per quanto riguarda le donne e le persone bisessuali. Vedo nei tentativi di superare le categorizzazioni che arrivano dagli anni passati un modo di gettare nuove strade, nuovi ponti, nuovi modi di interfacciarsi con il mondo, la voglia e la necessità di uscire da uno stereotipo identitario che ci è stato costruito addosso anche col nostro permesso.

Vedo volti, storie, sorrisi, messaggi, dichiarazioni di persone che ancora non hanno intenzione di arrendersi e lottano ogni giorno, con la gioia che arriva dal sentire che la propria vita è diventata uno strumento per il benessere collettivo.

Tutto questo mi dà la forza per alzare la testa e ricordarmi che al di là delle nebbie splende comunque il sole. E il nostro sole, l'obiettivo che ci siamo preposti, che condividiamo anche nelle nostre differenze individuali, politiche o culturali, è e resta l'idea di una società non più soltanto tollerante o rispettosa, ma inclusiva, che valorizzi ogni singola persona proprio nella sua diversità.

Per portare avanti questa visione ho quindi deciso di porre al servizio dell'associazione il mio tempo e le mie capacità (poche), e soprattutto l'esperienza che ho maturato in questi anni di volontariato, prima come semplice attivista, poi come socio fondatore e vicepresidente del Comitato Arcigay di Cuneo Figli della Luna, e infine nelle attività del Coordinamento Torino Pride LGBT.

Ormai Torino è casa mia, mi sono innamorato di questa città che riserva sempre un conforto anche nei momenti più bui, che riempie le piazze e le strade quando la gravità delle situazioni lo richiede, e anche quando si vuole condividere qualcosa di bello con tutti gli altri e le altre. Porto dentro di me i ricordi del Pride del 2006, del 2009, la fiaccolata contro l'omofobia, la manifestazione con le donne e i migranti del 2010, quando vedevo migliaia di persone rispondere ad un richiamo di pochi in nome di ideali condivisi.

Questo è il senso della mia candidatura: mettermi al servizio di un'idea, di un progetto, che attraversa il Comitato Provinciale Arcigay Torino Ottavio Mai ma non si ferma con esso, che coinvolge e condivide con le altre associazioni, prima di tutto quelle GLBT, ma anche, grazie ai percorsi condivisi che sono importanti ed essenziali per una crescita individuale ed associativa, con le associazioni delle donne, con i migranti, i laici, e più in generale con chiunque abbia negli occhi la voglia di dire “tutto questo non mi basta, voglio cambiare le cose”.

Ma tutto questo non posso farlo certo da solo! Ho bisogno di aiuto, di consiglio, di idee, di progetti, di donne e uomini che vogliano condividere con me i loro sogni e le loro speranze. Per questo vi chiedo di partecipare al Congresso il 10 aprile, perchè ho bisogno di voi. Da soli possiamo ben poco, ma se ci uniamo, e rendiamo Arcigay uno strumento efficace e dinamico, abbiamo realmente la possibilità di cambiare le cose, e di rendere Torino, e piano piano anche il resto del paese - che a Torino guarda come ad un faro che indica la strada – una città di cui possiamo essere orgogliosi cittadini e cittadine.

Vi aspetto,
Marco Alessandro Giusta

lunedì 21 marzo 2011

Risposta a Beppe Sajeva

A seguito della serata commemorativa dei 150 anni dell'Unità d'Italia a Boves è uscito questo articolo su Cuneocronaca.it a firma di Beppe Sajeva. Ecco la mia risposta:

Trovo alquanto imbarazzanti le parole usate da Beppe Sajeva nel suo articolo sulla serata organizzata a Boves per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Non tanto per il tono o la presa di posizione, ognuno è libero infatti di portar avanti la propria idea o retaggio politico, quanto per le inesattezze che attraversano trasversalmente l'articolo. Montare un caso per una mancata citazione mi pare un buon modo per non affrontare i temi che sono scaturiti dalla serata, che si è vista caratterizzata da una forte ed importante partecipazione di persone, giovani, anziani, bambini, famiglie, unite ed uniti nella voglia di stringersi per una sera attorno ad una bandiera e a un'idea di unità e di condivisione. Inoltre, descrivere come incidente la lettura dei brani o degli interventi dove comparivano espressioni trasversali che esprimevano il sentimento delle persone che partecipavano alla serata mi pare alquanto poco sano, quasi che si volesse, in nome di un'ostentata salvaguardia di valori, stendere un velo di silenzio sulla realtà che ci circonda. Non credo, sig. Sajeva, che la bandiera tricolore fosse stata inventata con lo scopo di usarla come lenzuolo sotto cui nascondere sentimenti e pensieri che attraversano un popolo. Anzi, penso piuttosto che essa fosse vista come la somma dell'espressione individuale e collettiva, un simulacro di libertà. Non si può negare che molte sensazioni stiano attraversando il nostro paese, che da sempre è portato quasi per sua natura a scindersi in diverse opinioni contrastanti e arroccarsi sulle proprio posizioni, sensazioni che sono state espresse in momenti recenti, come la manifestazione delle donne o quella degli studenti. Esprimerle in una serata dedicata all'Unità è forse il miglior modo di ricordare che proprio sulla base di sensazioni, di pensieri collettivi, della voglia di libertà e rinnovamento è nato questo paese. Infine, accusare Mattia Pastore di attacchi alla figura di Silvio Berlusconi è una rilettura molto parziale di ciò che è successo. Il direttore della Banda Silvio Pellico si è limitato a leggere gli interventi di altre persone (e a onor del vero, la "frase dello scandalo" non l'ha letta nemmeno lui). Piuttosto, io vorrei ringraziare pubblicamente il Sindaco, la Banda Musicale Silvio Pellico e il suo direttore per aver costruito una serata dove è stato dato spazio anche a  vive quotidianamente come minoranza oppressa e discriminata - e non sono io a definirmi tale, ma l'Unione Europea sulla base del Trattato di Lisbona, che identifica le persone discriminate culturalmente e politicamente sulla base dell'età, della disabilità, della religione, dell'etnia, dell'identità di genere e dell'orientamento sessuale - di trovare il suo spazio, e di sentirsi, per una sera, un po' più orgoglioso di essere italiano.

giovedì 17 marzo 2011

Intervento per la celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia - Boves, 16 marzo 2011

Dagli atri muscosi dai fori cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente rumor.

(Alessandro Manzoni, Adelchi)

Fratelli e sorelle d'Italia,
siamo qui oggi per celebrare i 150 anni della nostra nazione. In questo giorno di festa, però, è un grande dubbio che mi lacera e non mi permette di unirmi ai festeggiamenti come italiano e cittadino.
Il dubbio che questa Unità d'Italia, conquistata col sangue in nome di un sogno, sia naufragata per colpa di male oscuro che attanaglia il nostro paese: il particolarismo e l'individualismo.
Guardiamoci intorno: io vedo un paese diviso, frantumato in tante realtà che lottano le une contro le altre, abitato da persone che non vedono riconosciuto il loro diritto di cittadinanza: donne, gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, anziani, fedeli di religioni diverse da quella cattolica, poveri, disabili, persone di diverse etnie e status sociale.
Io vedo un paese che nel nome della paura del diverso ha eretto muri e barriere, ha fondato partiti, ha creato mostri sociali coi quali spaventare i propri figli.
Io vedo un paese che fu unito in nome della laicità inchinarsi davanti ai dettami di uno stato estero.
Io vedo un paese dove i diritti dei lavoratori, degli immigrati, e più in generale delle persone vengono calpestati sulla base di dividendi, di profitti, di interessi di pochi a scapito di molti.
Io vedo un paese che ha perso la sua capacità di farsi motore culturale, che ha abbandonato gli insegnanti delle scuole pubbliche e gli studenti al loro destino, che ha innalzato il vessillo del Qui ed Ora al posto di Adesso e Nel Futuro.
Per questo, oggi, è per me quasi impossibile unirmi ai festeggiamenti dell'Unità d'Italia, non fosse però che tengo vivo in me il ricordo.
Il ricordo di un momento che ha attraversato questo paese, il ricordo di un sogno che ci ha permesso di diventare cittadini di questa giovane nazione.
Il sogno di uno stato dove l'uguaglianza sostanziale, la laicità, la dignità di ogni singola persona, il diritto al lavoro e ad un'istruzione potessero essere valori condivisi e l'eredità di cui andare fieri.

Questo sogno io festeggio oggi, e chiudo condividendo con voi le parole di Camillo Benso conte di Cavour:

« La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità».

Fratelli e sorelle d'Italia, ritroviamo oggi la dignità e la fierezza di essere italiani, e non permettiamo più che qualcuno possa portarcela via.