mercoledì 23 marzo 2011

Yes We Marco


Care e cari,
candidarsi per un incarico importante non è mai una scelta semplice. Molti sono i dubbi e le ansie generate: sarò in grado di fare ciò che mi sono prefissato? Sarò la persona giusta per rispondere alle esigenze delle persone che mi voteranno? Riuscirò a costruire qualcosa di positivo, visto e considerato che l'associazione per la quale mi candido esce da un trend esplosivo di crescita esponenziale?

Queste sono i miei dubbi. A questo aggiungiamo il fatto che la situazione nella quale ci muoviamo non è delle più semplici. Vedo i traguardi che fino a ieri sembravano vicini allontanarsi vertiginosamente, vedo la grande stagione dei diritti che ha avuto il suo apice nel giugno del 2007 con il Pride romano partecipato da circa un milione di persone (in risposta al family day) e le discussioni di Pacs, Dico, Cus etc tramontante e sciolte come neve al sole, quando ormai sembravano così vicine da poterle quasi sfiorare con la punta delle dita. Vedo un ritorno ad un particolarsimo diffuso, ad un disinteresse generale dettato non tanto dalla mancanza di buona volontà, ma di stanchezza e di un senso di impotenza che attraversa la nostra comunità. Vedo anche molta confusione, molti dubbi, una serie estenuante di scissioni, distinguo, veleni, non partecipazioni che frammentano e disgregano le stesse associazioni che ormai sono lasciate in balia a sé stesse nel portare avanti le istanze non solo dei propri soci e socie, ma nel rappresentare una necessità collettiva. Vedo molte persone che scelgono di partire, e non posso che augurare loro di trovare altrove ciò che qui ormai sembra una chimera: una buona istruzione, un buon lavoro, un riconoscimento di dignità e rispetto non solo per i singoli ma anche per le coppie, e tutti i diritti – e grazie al cielo i doveri – che ne derivano. Vedo una società che lotta per restare ancorata a valori di matrice religiosa, che deve cedere il passo ad una multiculturalità che sembra sopraffarla perchè non riesce a costruire valori diffusi di laicità, uguaglianza, condivisione. Insomma, un panorama molto tragico e quasi annichilente, non fosse per le piccole scoperte quotidiane che si interpongono a questa sottile nebbia.

Come fiori che spuntano nella neve vedo una voglia di riunirsi, di parlare, di scendere in piazza su temi condivisi (i Pride, la manifestazione delle donne e degli studenti, ad esempio). Vedo una generazione di giovani crescere attraverso il gruppo giovani con la voglia di fare, di lottare, di essere utili agli altri. Vedo persone meno giovani che arrivano in associazione grazie alle campagne informative, alle attività culturali, ai servizi di ascolto e di incontro, e che non chiedono altro che di essere valorizzate, di poter essere “ancora utili”. Vedo la voglia di spegnere i canali di informazione abituali e costuire nuovi modi di “essere formazione”, di portare la propria esperienza e le proprie conoscenze e di metterle al servizio degli altri. Vedo una volontà di veder riconosciuta la propria specificità di genere o orientamento, soprattutto per quanto riguarda le donne e le persone bisessuali. Vedo nei tentativi di superare le categorizzazioni che arrivano dagli anni passati un modo di gettare nuove strade, nuovi ponti, nuovi modi di interfacciarsi con il mondo, la voglia e la necessità di uscire da uno stereotipo identitario che ci è stato costruito addosso anche col nostro permesso.

Vedo volti, storie, sorrisi, messaggi, dichiarazioni di persone che ancora non hanno intenzione di arrendersi e lottano ogni giorno, con la gioia che arriva dal sentire che la propria vita è diventata uno strumento per il benessere collettivo.

Tutto questo mi dà la forza per alzare la testa e ricordarmi che al di là delle nebbie splende comunque il sole. E il nostro sole, l'obiettivo che ci siamo preposti, che condividiamo anche nelle nostre differenze individuali, politiche o culturali, è e resta l'idea di una società non più soltanto tollerante o rispettosa, ma inclusiva, che valorizzi ogni singola persona proprio nella sua diversità.

Per portare avanti questa visione ho quindi deciso di porre al servizio dell'associazione il mio tempo e le mie capacità (poche), e soprattutto l'esperienza che ho maturato in questi anni di volontariato, prima come semplice attivista, poi come socio fondatore e vicepresidente del Comitato Arcigay di Cuneo Figli della Luna, e infine nelle attività del Coordinamento Torino Pride LGBT.

Ormai Torino è casa mia, mi sono innamorato di questa città che riserva sempre un conforto anche nei momenti più bui, che riempie le piazze e le strade quando la gravità delle situazioni lo richiede, e anche quando si vuole condividere qualcosa di bello con tutti gli altri e le altre. Porto dentro di me i ricordi del Pride del 2006, del 2009, la fiaccolata contro l'omofobia, la manifestazione con le donne e i migranti del 2010, quando vedevo migliaia di persone rispondere ad un richiamo di pochi in nome di ideali condivisi.

Questo è il senso della mia candidatura: mettermi al servizio di un'idea, di un progetto, che attraversa il Comitato Provinciale Arcigay Torino Ottavio Mai ma non si ferma con esso, che coinvolge e condivide con le altre associazioni, prima di tutto quelle GLBT, ma anche, grazie ai percorsi condivisi che sono importanti ed essenziali per una crescita individuale ed associativa, con le associazioni delle donne, con i migranti, i laici, e più in generale con chiunque abbia negli occhi la voglia di dire “tutto questo non mi basta, voglio cambiare le cose”.

Ma tutto questo non posso farlo certo da solo! Ho bisogno di aiuto, di consiglio, di idee, di progetti, di donne e uomini che vogliano condividere con me i loro sogni e le loro speranze. Per questo vi chiedo di partecipare al Congresso il 10 aprile, perchè ho bisogno di voi. Da soli possiamo ben poco, ma se ci uniamo, e rendiamo Arcigay uno strumento efficace e dinamico, abbiamo realmente la possibilità di cambiare le cose, e di rendere Torino, e piano piano anche il resto del paese - che a Torino guarda come ad un faro che indica la strada – una città di cui possiamo essere orgogliosi cittadini e cittadine.

Vi aspetto,
Marco Alessandro Giusta

lunedì 21 marzo 2011

Risposta a Beppe Sajeva

A seguito della serata commemorativa dei 150 anni dell'Unità d'Italia a Boves è uscito questo articolo su Cuneocronaca.it a firma di Beppe Sajeva. Ecco la mia risposta:

Trovo alquanto imbarazzanti le parole usate da Beppe Sajeva nel suo articolo sulla serata organizzata a Boves per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Non tanto per il tono o la presa di posizione, ognuno è libero infatti di portar avanti la propria idea o retaggio politico, quanto per le inesattezze che attraversano trasversalmente l'articolo. Montare un caso per una mancata citazione mi pare un buon modo per non affrontare i temi che sono scaturiti dalla serata, che si è vista caratterizzata da una forte ed importante partecipazione di persone, giovani, anziani, bambini, famiglie, unite ed uniti nella voglia di stringersi per una sera attorno ad una bandiera e a un'idea di unità e di condivisione. Inoltre, descrivere come incidente la lettura dei brani o degli interventi dove comparivano espressioni trasversali che esprimevano il sentimento delle persone che partecipavano alla serata mi pare alquanto poco sano, quasi che si volesse, in nome di un'ostentata salvaguardia di valori, stendere un velo di silenzio sulla realtà che ci circonda. Non credo, sig. Sajeva, che la bandiera tricolore fosse stata inventata con lo scopo di usarla come lenzuolo sotto cui nascondere sentimenti e pensieri che attraversano un popolo. Anzi, penso piuttosto che essa fosse vista come la somma dell'espressione individuale e collettiva, un simulacro di libertà. Non si può negare che molte sensazioni stiano attraversando il nostro paese, che da sempre è portato quasi per sua natura a scindersi in diverse opinioni contrastanti e arroccarsi sulle proprio posizioni, sensazioni che sono state espresse in momenti recenti, come la manifestazione delle donne o quella degli studenti. Esprimerle in una serata dedicata all'Unità è forse il miglior modo di ricordare che proprio sulla base di sensazioni, di pensieri collettivi, della voglia di libertà e rinnovamento è nato questo paese. Infine, accusare Mattia Pastore di attacchi alla figura di Silvio Berlusconi è una rilettura molto parziale di ciò che è successo. Il direttore della Banda Silvio Pellico si è limitato a leggere gli interventi di altre persone (e a onor del vero, la "frase dello scandalo" non l'ha letta nemmeno lui). Piuttosto, io vorrei ringraziare pubblicamente il Sindaco, la Banda Musicale Silvio Pellico e il suo direttore per aver costruito una serata dove è stato dato spazio anche a  vive quotidianamente come minoranza oppressa e discriminata - e non sono io a definirmi tale, ma l'Unione Europea sulla base del Trattato di Lisbona, che identifica le persone discriminate culturalmente e politicamente sulla base dell'età, della disabilità, della religione, dell'etnia, dell'identità di genere e dell'orientamento sessuale - di trovare il suo spazio, e di sentirsi, per una sera, un po' più orgoglioso di essere italiano.

giovedì 17 marzo 2011

Intervento per la celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia - Boves, 16 marzo 2011

Dagli atri muscosi dai fori cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente rumor.

(Alessandro Manzoni, Adelchi)

Fratelli e sorelle d'Italia,
siamo qui oggi per celebrare i 150 anni della nostra nazione. In questo giorno di festa, però, è un grande dubbio che mi lacera e non mi permette di unirmi ai festeggiamenti come italiano e cittadino.
Il dubbio che questa Unità d'Italia, conquistata col sangue in nome di un sogno, sia naufragata per colpa di male oscuro che attanaglia il nostro paese: il particolarismo e l'individualismo.
Guardiamoci intorno: io vedo un paese diviso, frantumato in tante realtà che lottano le une contro le altre, abitato da persone che non vedono riconosciuto il loro diritto di cittadinanza: donne, gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, anziani, fedeli di religioni diverse da quella cattolica, poveri, disabili, persone di diverse etnie e status sociale.
Io vedo un paese che nel nome della paura del diverso ha eretto muri e barriere, ha fondato partiti, ha creato mostri sociali coi quali spaventare i propri figli.
Io vedo un paese che fu unito in nome della laicità inchinarsi davanti ai dettami di uno stato estero.
Io vedo un paese dove i diritti dei lavoratori, degli immigrati, e più in generale delle persone vengono calpestati sulla base di dividendi, di profitti, di interessi di pochi a scapito di molti.
Io vedo un paese che ha perso la sua capacità di farsi motore culturale, che ha abbandonato gli insegnanti delle scuole pubbliche e gli studenti al loro destino, che ha innalzato il vessillo del Qui ed Ora al posto di Adesso e Nel Futuro.
Per questo, oggi, è per me quasi impossibile unirmi ai festeggiamenti dell'Unità d'Italia, non fosse però che tengo vivo in me il ricordo.
Il ricordo di un momento che ha attraversato questo paese, il ricordo di un sogno che ci ha permesso di diventare cittadini di questa giovane nazione.
Il sogno di uno stato dove l'uguaglianza sostanziale, la laicità, la dignità di ogni singola persona, il diritto al lavoro e ad un'istruzione potessero essere valori condivisi e l'eredità di cui andare fieri.

Questo sogno io festeggio oggi, e chiudo condividendo con voi le parole di Camillo Benso conte di Cavour:

« La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità».

Fratelli e sorelle d'Italia, ritroviamo oggi la dignità e la fierezza di essere italiani, e non permettiamo più che qualcuno possa portarcela via.